di Giuseppe Tuccio – Reggio Calabria vive e soffre una atavica condizione di sofferenza sociale per la presenza e la prepotenza di organizzazioni mafiose che minano le stesse strutture rappresentativo-istituzionali,
oltre che esercitare un preoccupante controllo delle dinamiche economiche e finanziarie in una economia regionale abbastanza fragile.
La comunità ha dunque giustamente sete di giustizia e di sicurezza, per cui è oltremodo difficile avviare approfondimenti anche di livello scientifico-culturale sui temi che riguardano la detenzione, per un malinteso rapporto equazionale tra il valore della sicurezza ed il diniego radicale dei diritti costituzionali in favore del detenuto, nell’erroneo convincimento che la pena tout court debba rapportarsi esclusivamente e definitivamente alla gravità del fatto reato, per soddisfare la cosiddetta “pretesa punitiva statuale”.
“Tu hai compromesso i diritti della comunità attraverso il delitto, violando la legge; io Stato faccio altrettanto nei tuoi confronti, a nulla rilevando le reiterate proclamazioni anche di rango costituzionale, in materia di funzione emanativa della pena”.
In questo senso e solo in esso si risolverebbe dunque il tema della certezza “quantitativa” della pena.
Il compianto Federico Stella nel suo ultimo libro “La giustizia e le ingiustizie” ribadiva il principio che le teorie della giustizia sembrano costruite per mondi ideali, ipotetici, se non del tutto fittizi.
Le norme in materia di detenzione sono uno dei tanti esempi di tale affermazione, in quanto hanno trovato nel tempo rara applicazione.
Riecheggia dunque il monito di Bobbio “Altro è un diritto, altro una promessa di un diritto futuro. Altro un diritto attuale, altro un diritto potenziale. Altro ancora avere un diritto che è, proprio in quanto riconosciuto e protetto, altro avere un diritto che deve essere”.
Le irrisolte problematiche della immigrazione e della tossicodipendenza, della coesistenza in cella con soggetti portatori di diversa pericolosità sociale, di insufficiente apporto delle Autonomie Locali per potenziare itinerari del recupero sociale degli ex detenuti e dunque dell’estrema difficoltà di neutralizzare la forza aggregante della criminalità organizzata, anche nell’universo carcerario,
inducono a riflettere in ordine al rischio che una democrazia incompiuta svuoti di significato le ribadite e solennemente riaffermate petizioni di principio.
Indubbiamente la comunità ha diritto a rivendicare un sistema che sia in grado di garantire sicurezza e prevenzione generale, ma è proprio la insufficienza del sistema che determina uno squilibrio della sicurezza sia all’esterno che all’interno delle carceri.
Allora occorre fare un passo indietro, e senza indulgere in vuoti sociologismi non può non farsi cenno, pur brevissimo, “al perché dei perché” del delitto e conseguentemente dello status del reo e quindi del detenuto, il più debole tra i deboli della società.
Frattanto va rammentato che da parte dei costituzionalisti di tutti i Paesi democratici si rileva con unanime valutazione negativa come gli ordinamenti vigenti in effetti hanno lasciato ampi spazi di operatività alle contrastanti, irrisolte dinamiche di forze sociali, agli scontri sociali condizionati evidentemente dal dominio di quelle più forti, lasciando altrettanti spazi di operatività e quindi comode “opportunità di soluzione” degli scontri all’interno del sistema economico, attraverso la esclusiva predisposizione di un discutibile apparato sanzionatorio penale.
Dunque censura sociale attraverso l’apparato penale-penitenziario.
La smentita corale, da parte della criminologia e della sociologia, del diritto penale in materia è, al contrario, netta nel non riconoscere alla sanzione criminale il ruolo di idoneità assoluta ed esclusiva a produrre censura sociale e cioè una funzione decisiva di ridefinizione dei valori essenziali su cui si cementa il patto sociale.
Di tal che l’applicazione di essa, ragionevolmente, dovrebbe rimanere delimitata come estrema ratio, ai soli casi in cui essa appare strettamente indispensabile.
Sappiamo tutti che così non è e che, al contrario, sono stati scaricati sul sistema penitenziario tanti conflitti sociali, tanti disagi umani, per cui dal sociale al penale, il penitenziario è drammaticamente divenuto ambito di discarica sociale.
Basti riflettere intorno al fenomeno della immigrazione ed alla tossicodipendenza che hanno alimentato sempre più vaste aree marginali ad alto rischio, per fronteggiare i quali appunto il diritto penale è stato concepito come equivalente a strumento di controllo.
Ed è proprio con riferimento a queste categorie (oltre il 30% della popolazione carceraria) che diritti umani, ritualmente evocati e proclamati in ipocrite liturgie, sono sistematicamente compromessi, fino al loro totale annullamento, in un sistema penitenziario in cui la vivibilità carceraria continua ad essere ad altissimo rischio, che consiglierebbe ai governanti l’adozione di affrettati rimedi legislativi.
Non è difficile pensare, in tali pericolosi frangenti, che tante irrisolte problematiche rendono più difficile la neutralizzazione della forza aggregante che la criminalità organizzata esercita nei confronti della detenzione carceraria, soprattutto quella giovanile, con proposte abbacinanti di vita alternativa.
Se riflettiamo un istante sulla impostazione delle attuali strategie di contrasto alla criminalità organizzata , osserveremo che la più alta percentuale dei detenuti per il delitto di cui all’art. 416 bis C.P. è costituita da giovani di limitato peso specifico delinquenziale, di non primaria caratura mafiosa.
È doveroso ed è giusto perseguire i colpevoli ma, puntando maggiormente verso la individuazione delle persone fisiche coinvolte e meno verso i prevalenti profitti economico-finanziari prodotti dal crimine organizzato si rischia di lasciare in ombra le dinamiche di inserimento delle risorse economiche mafioso che pervasivamente stanno controllando buona parte della economica meridionale e quindi degli apparati rappresentativo-istituzionali, creando sacche di disponibilità per la crescita della emergente “borghesia mafiosa”.
Comprendo bene come discorsi di questo tipo possano essere male interpretati come atteggiamenti di lassismo, di indulgenza e di pietoso perdonismo verso gli autori di reati, per cui il mito della certezza quantitativa della pena è invocato come panacea di ogni male sociale.
Con netta frequenza negli ultimi tempi si discute in maniera distorta della effettività della sanzione penale, della certezza della pena, addebitando alle pretese manipolazioni, in sede esecutiva della pena, la causa del fallimento dell’intero sistema penale-processuale-penitenziario, soprattutto con riferimento alla funzione di prevenzione generale intesa come necessità intrinseca di soddisfare il bisogno di sicurezza e quindi di determinante untore deterrente nella lotta contro la criminalità organizzata.
Va più approfonditamente effettuata evidentemente una seria riflessione attorno al più determinante tema della crisi della sanzione penale nello scontro con la riconosciuta pretesa costituzionale secondo cui la pena, nella sua polifunzionalità, assolve un ruolo primario sul versante emendativo.
Insomma va messo correttamente in discussione il principio di intangibilità del giudicato penale per conferire maggiore vigore alla strategia delle prevenzione particolare mediamente proiettata a favorire in maniera più ferma e più convinta la prevenzione generale e quindi a soddisfare esigenze di sicurezza collettiva.
Così delineata la pena evidentemente non appare, all’occhio grosso dell’opinione pubblica, più rispondente alle esigenze di sicurezza della comunità sociale, che non la percepisce come essa vorrebbe istintivamente e cioè come adeguatamente e definitivamente rapportata esclusivamente all’obiettivo disvalore del fatto-reato, in un evidente errore di interpretazione del significato costituzionale della pena stessa.
Acquisito il convincimento di queste divergenze per la difficoltà di concepire una totale sinergia tra sicurezza sociale e garanzie costituzionali, va riaffermato con convinzione il principio della polifunzionalità della pena, approfondendo un aspetto finora non sufficientemente esplorato e cioè quello riparativo nei confronti della vittima e della comunità in un tentativo di conciliazione appunto con la società civile e con la parte lesa.
In tale opera sarebbe utile un intervento legislativo totale capace di impegnare più istituzioni, in uno sfogo collettivo, idoneo a soddisfare esigenze di concretezza della pena, certa cioè nella sua qualità, nella sua idoneità e adeguatezza, sia infra che extramenia, alla luce della polinfunzionalità di essa, che dalla prevenzione particolare raggiunga la prevenzione generale, la retribuzione di difesa sociale, la risocializzazione del detenuto, ed, in definitiva, la sua sensibilizzazione verso un nuovo progetto di vita, attraverso un processo di mediazione e di riparazione sociale.
È indubbia una doverosa attenzione alla posizione della vittima o meglio delle vittime del reato.
Personalmente ho ravvisato come proprio dal carcere emerge una forte necessità di dialogo con esse, per superare la condizione di parti barricate, per fare conoscere a chi sta dentro la sofferenza prodotta, va dunque sollecitata l’attuazione normativa, anche di rilievo costituzionale, relativa al processo tratta mentale che contiene una ferma esortazione in questo senso, richiamando al “sostegno” del detenuto, anche attraverso l’invito alla riflessione, seria e responsabile, sulla condotta, sulle motivazioni e sulle conseguenze del reato, attraverso una rivisitazione del percorso criminale, in un dialogo fra le parti, facilitato dal mediatore con un linguaggio che deve essere totalmente diverso da quello adoperato nei tribunali.
È proprio l’incontro tra le narrazioni anche lo scontro, in un originale stato dialogico, può sentire per creare una opportunità di trasformazione, per rendere visibile – come sostiene una preziosa mediatrice dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano, Federica Brunelli – “il misterioso incommensurabile che sta dentro di noi”.
Ogni risorsa esistente sul territorio può essere utilizzata e finalizzata al tentativo di socializzazione del condannato.
Non è possibile che si possa sperare in un reinserimento di una persona nella società, allontanandola dalla stessa; soltanto la territorializzazione della esecuzione penale, attraverso strategie di rete può costituire un mezzo efficace per facilitare un processo di recupero sociale.
L’obiettivo è dunque un potenziamento sistemico dei rapporti tra il penale ed il sociale, tra il penitenziario ed il sociale.
Il coinvolgimento e l’integrazione delle risorse e la capacità di promuovere progetti che mettano al centro i bisogni del detenuto ed il suo recupero sono espressione del processo di responsabilizzazione di cui si deve fare carico, assieme al detenuto, tutta la società civile, proprio perché la trasgressione si è instaurata nelle problematiche individuali ma soprattutto relazionali, come fattori di maggiore rischio nella determinazione delazione e della reazione trasgressiva.
Per il raggiungimento di questo obiettivo rimangono impegnate le opere della psicologia, la famiglia, le dinamiche sociali, la società tutta intera perché il detenuto si ponga unitamente ad esse l’obiettivo della nuova definizione del suo essere sociale.
Questo percorso non può vedere estranea la società civile, la collettività intera.
L’obiettivo evidentemente è quello della costruzione di un progetto utile per la persona detenuta, perché, acquisita la consapevolezza piena e responsabile del suo debito speciale, in una sensibilità nuova che rompa con il passato, sia messo in condizione di emanciparsi non solo dallo stato di detenzione, ma anche dalle possibili trasgressioni, con evidenti riflessi positivi sulla collettività creando importanti risorse sul versante della sicurezza.