di Anna Foti – “La memoria e la responsabilità sono un esercizio quotidiano”, ha ricordato don Luigi Ciotti il fondatore di Libera, associazione nomi e numeri contro le mafie, in collegamento da Foggia, quando ad ascoltarlo in piazza Martiri d’Ungheria a Vibo Valentia lo scorso 21 marzo c’erano migliaia di persone. L’antica Hipponion ha infatti ospitato, unitamente ad oltre 4000 luoghi d’Italia e alcuni d’Europa ed America Latina, la manifestazione regionale legata alla Giornata nazionale della Memoria e dell’Impegno per le vittime innocenti delle mafie e la lettura (alle ore 11) dei quasi 1000 nomi di vittime al cospetto di tanti familiari e cittadini. Il tema associato alla XXIII Giornata della Memoria e dell’Impegno, lo scorso anno proclamata tale anche con legge dello Stato, è stato “Terra. Solchi di verità e giustizia”. Un’occasione per ricordare e per denunciare che sul 70% di queste storie non è stata fatta luce, che centinaia di famiglie non hanno avuto ancora verità e giustizia, che centinaia di questi delitti non hanno colpevoli e sono quindi rimasti impuniti. “La nostra memoria è un mondo più perfetto di quanto lo sia l’universo: essa restituisce la vita a coloro che non esistono più”, scriveva Guy de Maupassant. C’è bisogno infatti che la memoria continui a ricordarci che tutti loro vivono e vivranno sempre nel ricordo dei cari, nel nostro impegno e nella nostra volontà di non arrenderci e di non rassegnarci.
Simbolica la scelta del primo giorno di primavera per questa memoria pregna di Vita, che non a caso è anche Giornata Internazionale della Poesia, proclamata dall’Unesco nel 1999 e Giornata Internazionale per l’Eliminazione delle Discriminazione Razziale proclamata dalle Nazioni Unite nel 1966. C’è una poesia vibrante nella memoria di chi continua a vivere oltre la morte e nell’impegno di chi ci ricorda che, se alimentassimo il rispetto e non cedessimo al pregiudizio, tutti sapremmo di essere nati con pari Dignità e Libertà e ci comporteremmo di conseguenza.
Antonio Valenti, Locri 11 marzo 1991
NESSUN COLPEVOLE
A soli 31 anni freddato da colpi di pistola mentre usciva dalla sede della ditta di bitumazione in cui lavorava a Locri. Antonio Valenti era originario di Sant’Ilario e quando fu colpito era l’11 marzo del 1991. Ricoverato subito in ospedale, ogni soccorso fu vano e morì il giorno dopo, lasciando la moglie Mariella e i figli Andrea e Davide. .
La sua colpa fu quella di lavorare presso la ditta
dei fratelli Gallo, già bersaglio di intimidazioni e attentati dinamitardi per non essersi piegata alla richiesta di pagamento del pizzo. Dunque l’agguato aveva presumibilmente un bersaglio diverso e la morte di Antonio Valenti fu frutto di un’azione ritorsiva nei confronti dei datori di lavori che non pagavano il pizzo.
Rocco Gatto, Gioiosa Jonica 12 marzo 1977
NESSUN COLPEVOLE
Quando il mugnaio calabrese iscritto al partito Comunista sfidò gli Ursini a Gioiosa Ionica in provincia di Reggio Calabria, erano gli anni del terrore in Italia, gli anni dell’illusione del decollo industriale della Calabria e della sua città in punta allo stivale. Quando Rocco Gatto non pagò il pizzo e iniziò contro la ‘ndrangheta la lotta coraggiosa e invisibile al resto del paese, eravamo negli anni in cui in Italia tremava la democrazia e in cui la sicurezza dagli attentati assumeva assoluta priorità. Una sera di novembre 1974, sempre in quegli anni di piombo nel resto d’Italia e di guerre di mafia nel Sud della stessa, in uno scontro con le forze dell’ordine era morto il boss reggente Vincenzo Ursini e in reazione la cosca aveva imposto il coprifuoco, il lutto cittadino nel paese, il blocco delle attività compreso il mercato. Rocco Gatto, in quell’occasione, spezzò il silenzio e fece i nomi. Una denuncia al capitano dei carabinieri Gennaro Niglio che produsse processi e condanne ma anche ritorsioni e violenze. Una denuncia che costò a Rocco la vita in una terra che avrebbe continuato a sacrificare e a sacrificarsi. Il papà Pasquale non ebbe mai dubbi circa la responsabilità degli Ursini sull’omicidio del figlio.
Il 12 marzo del 1977, dopo avere raccolto il grano da macinare, Rocco fu ucciso a colpi di lupara. Il delitto è rimasto impunito e le due persone indagate, Luigi Ursini e Mario Simonetta, furono assolte in primo e in secondo grado dalla corte d’assise di Locri e d’assise d’appello di Reggio Calabria nel 1979 e nel 1986 (sentenza confermata in Cassazione nel 1988) per insufficienza di prove. Ursini e Simonetta furono condannati solo per estorsione aggravata. Nel 1978 piazza Vittorio Veneto a Gioiosa Ionica divenne teatro di memoria con i colori contro la mafia del Murales in memoria di Rocco Gatto e delle altre vittime della ‘ndrangheta. “Alto è l’esempio che ha dato questo cittadino contro questo male che serpeggia nell’Italia meridionale. Il coraggio di questo calabrese deve essere d’esempio per tutti, per resistere alla mafia che rappresenta un affronto per il popolo calabrese”), si legge nella motivazione con cui Il Capo dello Stato Sandro Pertini nel maggio del 1980 consegnò la medaglia d’oro al valore Civile. Il suo coraggio fu segno di una tempra che rese Gioiosa Ionica il primo comune d’Italia ad avere scioperato nel 1975 contro la mafia e ad essersi costituito parte civile nel processo contro le ‘ndrine.
Sergio Cosmai, Cosenza 12 marzo 1985
UNA SOLA CONDANNA VENTICINQUE ANNI DOPO
Di origini pugliesi era Sergio Cosmai direttore della casa circondariale di Cosenza di via Popilia (già direttore a Locri e Crotone e vice direttore delle carceri di Trani, Lecce e Palermo), ucciso in un agguato mafioso consumatosi a Cosenza il 12 marzo 1985. Porta il suo nome adesso il tratto della SS 19 che collega Cosenza alla frazione Roges di Rende, percorrendo il quale, con l’intenzione di andare a prendere la figlia Rossella di tre anni all’asilo, fu raggiunto alla testa da diversi proiettili calibro 38 esplosi da un’autovettura che durante il tragitto si affiancò alla sua. Morì il giorno dopo presso l’ospedale di Trani senza conoscere il secondo figlio che la moglie Tiziana avrebbe messo al mondo solo un mese dopo e che oggi si chiama come lui, Sergio. Un delitto rimasto impunito. Il tribunale di primo grado di Trani condannò all’ergastolo Nicola e Dario Notargiacomo con Stefano Bartolomeo ma in appello furono tutti e tre assolti per insufficienza di prove, complice anche la ritrattazione di un giovanissimo testimone oculare. Successivamente Dario Notargiacomo collaborò con la giustizia e raccontò come monitoravano i movimenti del direttore Cosmai capace, con il rigore, la serietà e l’integrità con cui dirigeva il carcere, di ostacolare il controllo e le ingerenze mafiose dentro l’istituto penitenziario, di mantenere l’ordine e così di infastidire i boss. Al suo fianco, il suo braccio destro e sottufficiale della polizia penitenziaria, Filippo Salsone, originario di Brancaleone e anche lui ucciso l’anno dopo, il 7 febbraio del 1986. Nel marzo del 2014 ad essere condannato in modo definitivo fu solo il mandante dell’omicidio, il boss di Cosenza Franco Perna, dichiarato colpevole dalla corte d’assise si Catanzaro nel 2010.
Angela Costantino, Reggio Calabria 16 marzo 1994
LA VERITA’ DOPO 20 ANNI
Giustiziata per onore. Strangolata in casa per aver avuto una relazione extraconiugale mentre il marito, il boss Pietro Lo Giudice era detenuto nel carcere di Palmi negli anni Novanta. Condannata a morte per il codice mafioso che non avrebbe potuto tollerare e cancellare una simile onta. Questa la storia di Angela Costantino, sposata dall’età di sedici anni e a 25 anni, già vedova bianca di un marito boss detenuto e madre di quattro figli. Quando scomparve era il 16 marzo del 1994. La sua auto, una panda, fu ritrovata a Villa San Giovanni due giorni dopo la scomparsa ma a non essere mai ritrovato fu il suo corpo.
Suo suocero era Giuseppe Lo Giudice capo dell’omonima cosca mafiosa, attiva nel rione Santa Caterina di Reggio Calabria e protagonista, negli anni 1986 – 1988, della cruenta faida contro i Rosmini per il controllo delle attività illecite nella zona, ucciso nel 1990.
Angela, seguita, pedinata controllata e vittima di pesanti violenze psicologiche, pagò così il suo desiderio di cambiare vita, di determinare il proprio destino. Lei era una “sdisonorata” che aveva tradito un Lo Giudice, quindi tutto il clan. Questa, in estrema sintesi, la ricostruzione resa agli inquirenti dal pentito Maurizio Lo Giudice, prima, e da Antonino il “nano” poi. Tale ricostruzione fu avallata da riscontri incrociati con le dichiarazioni rese anche dagli altri due collaboratori di giustizia, Paolo Iannò e Domenico Cera. Nel 2015 il processo si è concluso con la condanna a trent’anni di carcere emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria che, accogliendo le richieste del sostituto procuratore Giuseppe Adornato, ha confermato la condanna dei parenti di Angela, Bruno Stilo, quale mandante dell’omicidio, e Fortunato Pennestrì, quale esecutore materiale. Il corpo di Angela non è mai stato trovato.
Vincenzo Grasso, Locri 20 marzo 1989 NESSUN COLPEVOLE
A Locri Vincenzo, marito di Angela e padre di Stefania e i gemelli Fabio e Francesco, aveva avviato la sua concessionaria di automobili, dopo l’esperienza da titolare di un’officina ad Ardore. Ma una vita dedicata alla famiglia e al lavoro era evidentemente un lusso troppo grande, una pretesa insostenibile in un luogo in cui la ndrangheta deteneva il controllo ed esercitava il potere. Vincenzo, tuttavia, aveva ben chiaro come avrebbe voluto vivere. Invece dei boss padroni a cui pagare il pizzo per il “quieto vivere” aveva scelto, pagando con la vita, di essere cittadino libero che denunciava alle forze dell’ordine i soprusi che tentavano di esercitare su di lui. Fu ucciso in un agguato, il 20 marzo 1989 proprio davanti alla sua concessionaria. Dopo richieste estorsive non accordate, minacce, intimidazioni e denunce, per lui arrivò inesorabile, una sera, l’esecuzione della sentenza di morte eseguita da due killer con un’arma da fuoco. Vincenzo Grasso dal 1982 denunciava alle forze dell’ordine le richieste di estorsione alla quali non aveva mai ceduto. Non avrebbe mai ceduto, convinto come era che bisognasse essere onesti, integri e coraggiosi per determinare il cambiamento, squarciare quella coltre di paura e costruire futuro per i suoi figli. Lo aveva anche scritto ad Enzo Biagi in un lettera datata 1987.
“Commerciante impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, benché consapevole del rischio cui si esponeva, si opponeva tenacemente a una lunga serie di intimidazioni e di pressanti richieste estorsive. Per tale coraggioso atteggiamento e inflessibile rigore morale rimaneva vittima di un vile attentato. Nobile esempio di ribellione alla violenza criminale, nonché di elette virtù civiche, spinte sino all’estremo sacrificio. Locri (RC), 20 marzo 1989”. Nonostante il conferimento nel marzo del 1997 della medaglia d’oro al valore Civile con questa motivazione, anche questo delitto non ha avuto ancora giustizia e verità.
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Mogadiscio 20 marzo 1994
NESSUN COLPEVOLE
Assolto dopo una condanna a ventisei anni di carcere di cui sedici già scontati il cittadino somalo Hashi Omar Hassan sempre proclamatosi innocente e a lungo ritenuto l’unico responsabile, con mandati mai individuati, per la morte della giornalista del Tg3, Ilaria Alpi, e dell’operatore Miran Hrovatin, avvenuta a Mogadisco il 20 marzo del 1994. All’inizio del 2016 l’avvio del processo di revisione, disciplinato ma tutt’altro che frequente nella storia giudiziaria del nostro paese, accordato dalla corte di Appello di Perugia in forza della ritrattazione delle dichiarazioni dell’unico testimonia chiave, mai comparso in Italia per altro, Ahmed Ali Rage, detto Jelle, che avrebbe mentito in cambio di un visto e di denaro, incolpando un innocente. È dell’aprile dello stesso anno la pronuncia di assoluzione per Omar Hassan che è adesso si unisce ad un coro finora inascoltato di giustizia e verità sulla vicenda. Questo è solo un altro capitolo di una storia scandita da omissioni, depistaggi, denegate giustizia e verità.
Ilaria e Miran sono stati uccisi in Somalia mentre conducevano un’inchiesta giornalistica sui traffici di armi e scorie radioattive legate ai fondi stanziati per la cooperazione internazionale e forse deviati. Da tempo nota la possibilità che un filo rosso leghi la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a quella del capitano reggino Natale De Grazia stroncato il 13 dicembre 1995 da un malore che è stato accertato non avere avuto cause naturali. Si stava recando alla Spezia, dove lo scorso anno è naufragato con l’archiviazione il tentativo di tornare ad indagare sull’affondamento di navi utilizzate per lo smaltimento di scorie radioattive anche nei mari calabresi.
E’ attesa per il prossimo 17 aprile la decisione del gip di Roma riguardo alla richiesta di archiviazione avanzata dalla procura sull’indagine relativa a questi due delitti e motivata dal pm Elisabetta Ceniccola con l’impossibilità di individuare esecutori e mandanti dell’agguato.
Anche don Ciotti da Foggia lo scorso 21 marzo ha ricordato questo appuntamento che potrebbe costituire un altro grave passo indietro nella ricerca di una verità ancora negata dopo quasi 25 anni.
«Siamo qui nel giorno del 24esimo anniversario dell’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin per dire che qualunque cosa decida il tribunale, il 17 aprile, noi non archivieremo la vicenda dei nostri colleghi uccisi a Mogadiscio e, anzi, continueremo a illuminare la loro storia e a chiedere per loro verità e giustizia». Con queste parole il presidente Giuseppe Giulietti, intervenuto dopo il saluto del direttore del Tg3 Luca Mazzà, ha introdotto il presidio organizzato a Saxa Rubra da Fnsi, Usigrai e Cdr del Tg3 con l’adesione di Libera informazione, Associazione Premio Morrione e Articolo21 lo scorso 20 marzo.
Daniele Polimeni, Favazzina, Scilla (RC), 30 marzo 2005
NESSUN COLPEVOLE
Appassionato di pesca e motocross e di Reggina, ucciso e reso irriconoscibile dalle fiamme, a Favazzina, distante solo pochi chilometri da Scilla in provincia di Reggio Calabria. Aveva solo diciannove anni e si chiamava Daniele Polimeni. Una madre disperata ma ostinatamente dolce e determinata a non darla vinta alla dimenticanza e all’impunità, è stata Anna Adavastro fino a quando, nel luglio 2015, non lo ha raggiunto. Se n’è andata senza conoscere la verità sulla morte del figlio e dopo avere contribuito affinchè la sua storia venisse conosciuta. Adesso resta papa Pietro ad aspettare una verità che ancora non arriva.
Daniele e sua madre Anna, vivevano nella zona nord di Reggio Calabria. Nessuno ha avuto mai nulla da dire e quel delitto, ancora avvolto nel mistero, allunga drammaticamente la scia dei crimini rimasti impuniti.